Articolo di Roberta Criscio pubblicato sul giornalino di Novembre 2020
La maternità è senz’altro uno dei desideri più intimi delle donne; non di tutte, forse, ma della maggior parte sì. Anche le più ambiziose, persino quelle che hanno puntato tutto sulla carriera o le single incallite, a un certo punto della vita sentono ticchettare l’orologio biologico e desiderano un figlio. Magari perché hanno trovato l’uomo giusto e vogliono coronare un sogno d’amore; magari per sentirsi in qualche modo eterne e scongiurare l’oblio; magari perché questo è quello che ci si aspetta da loro.
Tuttavia, la maternità non è istintiva per tutte, non è sempre facile né innata. C’è chi, in realtà, si scopre del tutto inadatta a ricoprire quel ruolo così importante e si sente incatenata da quei piccoli esseri umani, che pur essendo così preziosi, pur amandoli moltissimo, rappresentano anche la fine della libertà e della vita così come la si conosceva. Obbligano quasi a mettere da parte il proprio io, o una larga parte dei propri interessi, e tendono a far gravitare ogni aspetto della vita o evento della giornata attorno a loro. Ci si sente bloccate, esauste e, a volte, desiderose di scappare via.
Forse questo farà storcere il naso a qualcuno. Cionondimeno è una sensazione condivisa da molte donne e spesso poco affrontata, per nulla espressa, nascosta sotto falsi sorrisi per via di quel senso di colpa e di inadeguatezza che si avverte semplicemente al pensiero di non provare ciò che si dovrebbe. Ciò che le altre sicuramente (?) provano.
Diventare madri è un’esperienza che sconvolge, che porta a modificare abitudini, stile di vita, interessi e priorità. Fa acquisire nuove consapevolezze, oppure al contrario, fa perdere il contatto con il vero io, fa mettere in discussione ogni certezza. Può portare all’appagamento totale o a un senso di smarrimento.
Quest’ultimo è il caso di Anna, protagonista del romanzo vincitore del premio DeA Planeta, Le imperfette. Anna si sente imperfetta, perché non corrisponde ai canoni classici di moglie ideale e madre devota. Al contrario, dopo la nascita di Gabriele e soprattutto della sua seconda figlia, Natalia, Anna avverte il bisogno di cercare una sua identità, distinta da quella della sua famiglia: diversa da quella legata al serioso Guido, primario di chirurgia estetica in una prestigiosa clinica privata; diversa dal ruolo di figlia obbediente, rimasta orfana di madre troppo in fretta e cresciuta con un padre per il quale è stata il centro del mondo; diversa da quella di mamma di due bambini piccoli e bisognosi d’affetto. Desidera sentirsi solo Anna, la donna che scalpita alla vista di Javier, giovane andaluso con cui intrattiene una relazione extraconiugale. Anna, che mente a suo marito provando un brivido di eccitazione all’idea che la sua doppia vita possa scatenare in lui una viscerale gelosia. Anna, che non vede l’ora di mollare i suoi figli all’asilo per vivere un paio d’ore di passione.
In questo romanzo sembrano non esserci personaggi del tutto positivi. Non lo è Anna, appunto; non lo è suo marito Guido, né suo padre Attilio; non lo sono Javier e sua moglie; non lo è Maria Sole, la segretaria della clinica. Sono tutti terribilmente imperfetti.
Ma è proprio qui la forza del romanzo di Federica De Paolis, bravissima nello sviscerare tutta la gamma delle emozioni umane, specie femminili, senza preoccuparsi del politically correct. Sta in questo insano egoismo dei personaggi, la bellezza del romanzo. Nel loro essere così maledettamente umani.
La scrittura leggiadra della De Paolis fa sì che questo libro si legga con trasporto in poche ore, ma il messaggio che trasmette è destinato a restare: no, l’essere umano non è perfetto; le madri non sono infallibili e, soprattutto, ricordiamoci che non sono solo madri: sono donne, mogli, figlie (in alcuni casi amanti, ma questa è un’altra storia). Ognuno di noi ha più facce, più ruoli, e il segreto per vivere una vita autentica sta nell’accettare e abbracciare ciascuno di essi. Perché la felicità, in fondo, può annidarsi proprio nell’imperfezione.